Maurizio Pistone
2013-09-27 12:14:36 UTC
In una recente discussione si parla di "lingua parlata", ma non mi
sembra di aver capito bene a che cosa ci si riferisca.
La lingua parlata è una di quelle cose che si danno per scontate, ma di
cui è molto difficile dare una definizione.
Non esiste una lingua al di fuori dei concreti atti di produzione
linguistica. La grammatica è una costruzione teorica a posteriori, e
l'idea di studiare la grammatica prima di parlare o scrivere è come
pretendere di imparare a nuotare prima di buttarsi in acqua.
In questo senso, la lingua parlata è l'infinito insieme di tutti i
discorsi che si fanno.
Naturalmente quello che interessa è uno standard, che si dovrebbe
ricavare dal confronto del materiale. Un lessico, delle strutture
grammaticali e sintattiche, e perché no, un repertorio delle figure
retoriche e delle espressioni idiomatiche più comuni.
Alla grossa, sappiamo tutti a cosa ci riferiamo. Più o meno abbiamo
tutti un'idea di che cos'è la lingua italiana d'oggi, tant'è vero che ci
parliamo e ci capiamo - se non ci capiamo, raramente (almeno in questo
gruppo) è per motivi strettamente linguistici.
Sorgono tre grosse questioni. Per motivi pratici, metto prima avanti la
seconda, poi la terza, lasciando la prima in fondo.
2. Una volta che abbiamo raggiunto la definizione di uno standard, lo
consideriamo una semplice presa d'atto, oppure lo proponiamo come
modello? Passiamo dalla grammatica descrittiva a quella normativa?
Oppure lasciamo che ognuno continui a vivere nel fluire olistico della
lingua parlata, e ci limitiamo ad aggiungere le sue chiacchiere al
nostro repertorio di casi di studio?
3. Ci limitiamo a produrre un unico standard di riferimento, oppure
teniamo conto almeno dei registri e dei contesti più significativi in
cui si producono discorsi? Perché se fosse per me, io andrei sempre in
giro con gli stessi jeans e la stessa camicia stazzonata; ma c'è mia
moglie a ricordarmi che ci sono casi in cui bisogna essere un po' più
"all'onor del mondo".
Passiamo ora al problema ...
1. Come facciamo ad ottenere uno standard partendo dell'infinita varietà
delle realizzazioni concrete della lingua? "Settimana prossima", fa
parte dello standard? Per me no, perché non l'ho mai usato, e non ha
neanche senso nel mio dialetto. Ma temo che presto sarò in minoranza.
Devo dunque accettare uno standard di "lingua parlata" che io non
parlerò mai?
Di fatto, è possibile arrivare alla definizione di un qualunque standard
usando semplicemente la conta dei casi concreti? Come quelli che vanno a
guardare quante volte compare "incinta" e quante "in cinta" su Google
(tranquilli, vince "incinta", e di parecchio).
Oppure vogliamo fare alla maniera antica, scegliere un canone di buoni
autori che usano una buona lingua, e costruire su questi uno standard?
Cadendo ovviamente nel ragionamento circolare, che i buoni autori sono
quelli che usano una buona lingua, e la buona lingua è quella usata dai
buoni autori.
Io sono vecchio, e mi trovo bene in quest'ultimo ragionamento circolare.
Sono perfettamente d'accordo che il canone deve essere aggiornato (la
questione non è nuova, se ne parla da 500 anni), e sono anche d'accordo
su una definizione allargata di "buoni autori", estendendola ben al di
là delle "belle lettere" vere e proprie; un bel po' di prosa scientifica
e tecnica, senz'altro - non però il primo capitato che fa il suo
pàuer-pòint sulla caduta dal pero nella prospettiva della
globalizzazione.
Trovo inoltre utile, per una conoscenza un po' approfondita della
lingua, rendersi conto della storia della stessa; faccio fatica ad
immaginare una conoscenza della letteratura che non tenga conto del
contesto storico. In questo senso, Alessandro Manzoni, Italo Svevo e
Andrea Pazienza non sono intercambiabili. Così come ogni essere vivente
vive nella sua nicchia ecologica, e non possiamo studiare i pinguini
senza sapere com'è fatto l'Antartico, anche ogni autore vive in un
insieme di relazioni col suo ambiente, dialoga col *suo* presente, e
solo in questo senso possiamo capire *anche* le sue scelte linguistiche
- altrimenti si cade nel Manzoni ma quant'è bello l'Addio ai monti.
sembra di aver capito bene a che cosa ci si riferisca.
La lingua parlata è una di quelle cose che si danno per scontate, ma di
cui è molto difficile dare una definizione.
Non esiste una lingua al di fuori dei concreti atti di produzione
linguistica. La grammatica è una costruzione teorica a posteriori, e
l'idea di studiare la grammatica prima di parlare o scrivere è come
pretendere di imparare a nuotare prima di buttarsi in acqua.
In questo senso, la lingua parlata è l'infinito insieme di tutti i
discorsi che si fanno.
Naturalmente quello che interessa è uno standard, che si dovrebbe
ricavare dal confronto del materiale. Un lessico, delle strutture
grammaticali e sintattiche, e perché no, un repertorio delle figure
retoriche e delle espressioni idiomatiche più comuni.
Alla grossa, sappiamo tutti a cosa ci riferiamo. Più o meno abbiamo
tutti un'idea di che cos'è la lingua italiana d'oggi, tant'è vero che ci
parliamo e ci capiamo - se non ci capiamo, raramente (almeno in questo
gruppo) è per motivi strettamente linguistici.
Sorgono tre grosse questioni. Per motivi pratici, metto prima avanti la
seconda, poi la terza, lasciando la prima in fondo.
2. Una volta che abbiamo raggiunto la definizione di uno standard, lo
consideriamo una semplice presa d'atto, oppure lo proponiamo come
modello? Passiamo dalla grammatica descrittiva a quella normativa?
Oppure lasciamo che ognuno continui a vivere nel fluire olistico della
lingua parlata, e ci limitiamo ad aggiungere le sue chiacchiere al
nostro repertorio di casi di studio?
3. Ci limitiamo a produrre un unico standard di riferimento, oppure
teniamo conto almeno dei registri e dei contesti più significativi in
cui si producono discorsi? Perché se fosse per me, io andrei sempre in
giro con gli stessi jeans e la stessa camicia stazzonata; ma c'è mia
moglie a ricordarmi che ci sono casi in cui bisogna essere un po' più
"all'onor del mondo".
Passiamo ora al problema ...
1. Come facciamo ad ottenere uno standard partendo dell'infinita varietà
delle realizzazioni concrete della lingua? "Settimana prossima", fa
parte dello standard? Per me no, perché non l'ho mai usato, e non ha
neanche senso nel mio dialetto. Ma temo che presto sarò in minoranza.
Devo dunque accettare uno standard di "lingua parlata" che io non
parlerò mai?
Di fatto, è possibile arrivare alla definizione di un qualunque standard
usando semplicemente la conta dei casi concreti? Come quelli che vanno a
guardare quante volte compare "incinta" e quante "in cinta" su Google
(tranquilli, vince "incinta", e di parecchio).
Oppure vogliamo fare alla maniera antica, scegliere un canone di buoni
autori che usano una buona lingua, e costruire su questi uno standard?
Cadendo ovviamente nel ragionamento circolare, che i buoni autori sono
quelli che usano una buona lingua, e la buona lingua è quella usata dai
buoni autori.
Io sono vecchio, e mi trovo bene in quest'ultimo ragionamento circolare.
Sono perfettamente d'accordo che il canone deve essere aggiornato (la
questione non è nuova, se ne parla da 500 anni), e sono anche d'accordo
su una definizione allargata di "buoni autori", estendendola ben al di
là delle "belle lettere" vere e proprie; un bel po' di prosa scientifica
e tecnica, senz'altro - non però il primo capitato che fa il suo
pàuer-pòint sulla caduta dal pero nella prospettiva della
globalizzazione.
Trovo inoltre utile, per una conoscenza un po' approfondita della
lingua, rendersi conto della storia della stessa; faccio fatica ad
immaginare una conoscenza della letteratura che non tenga conto del
contesto storico. In questo senso, Alessandro Manzoni, Italo Svevo e
Andrea Pazienza non sono intercambiabili. Così come ogni essere vivente
vive nella sua nicchia ecologica, e non possiamo studiare i pinguini
senza sapere com'è fatto l'Antartico, anche ogni autore vive in un
insieme di relazioni col suo ambiente, dialoga col *suo* presente, e
solo in questo senso possiamo capire *anche* le sue scelte linguistiche
- altrimenti si cade nel Manzoni ma quant'è bello l'Addio ai monti.
--
Maurizio Pistone strenua nos exercet inertia Hor.
http://blog.mauriziopistone.it
http://www.lacabalesta.it
http://blog.ilpugnonellocchio.it
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